Carissimi
Perfecto e Manolo,
Sono
anch’io enormemente amareggiato per l’impressione di una mia qualche indulgenza
per l’indipendentismo catalano, generata dal resoconto giornalistico di un mio
intervento in una tavola rotonda svoltasi qui a Roma il 28 novembre, davanti
agli studenti nella mia università. E, naturalmente, ciò che più mi addolora è
il dissenso, o meglio l’incomprensione intervenuta tra di noi. Gran
parte del mio intervento qui a Roma è stato dedicato a due questioni. La prima
è stata la netta negazione dell’esistenza di un diritto all’autodeterminazione
dei popoli in un paese democratico nel quale siano garantiti, come in
Catalogna, i diritti fondamentali di tutti. Ho sostenuto l’ovvia tesi che il
diritto all’autodeterminazione è stato concepito, nelle attuali carte
internazionali, al fine di promuovere i processi di decolonizzazione e,
comunque, di liberazione da oppressioni straniere. L’indipendentismo della
Catalogna, tra le regioni più ricche della Spagna è invece (l’ho sostenuto anche
nel mio “Manifiesto por la igualdad”, Trotta, pp. 43-44, appena tradotto da
Perfecto), una forma inaccettabile di secessionismo dei ricchi.
La
seconda questione, ancora più di fondo, riguarda una minaccia che, sia pure in
forme diverse, sta avvelenando la politica nei nostri paesi, a cominciare
dall’Italia: l’estrema pericolosità, per il futuro delle nostre democrazie, dei
tanti conflitti identitari promossi con crescente successo da formazioni di
estrema destra cementate da rivendicazioni di tipo nazionalista (in Italia
diciamo anche “sovranista”) e talora razzista, nonché da una concezione della
democrazia informata alla logica schmittiana dell’amico-nemico: America first,
prima gli italiani, no alle invasioni dei migranti, no all’Unione Europea e
alle sue prescrizioni e, in Spagna, per di più, il secessionismo catalano e il
riemergere dei nazionalismi. In Italia – ma qualcosa di simile è accaduto negli
Stati Uniti, in Ungheria, in Polonia e rischia di accadere anche in Germania –
queste pulsioni e queste politiche identitarie sono alla continua ricerca di
nemici: la casta dei politici, l’Europa, i migranti, i devianti, gli stranieri.
Stanno tornando, ad opera delle campagne demagogiche che fanno leva sulla paura
per i diversi, i nazionalismi e i campanilismi aggressivi ed ottusi, che
rischiano di far fallire il progetto europeo ed anche di avvelenare le nostre
democrazie. Qualche anno fa il secessionismo in Italia della Lega Nord, che non
è stato affatto un fenomeno folcloristico ma una minaccia al nostro assetto
costituzionale, dette vita dapprima, il 15 settembre 1996, a una
“Dichiarazione di indipendenza della Padania” (entità regionale totalmente
inventata) e poi, il 25 maggio 1997, a un referendum,
oggi da tutti dimenticato, per l’indipendenza e la sovranità della Padania nel
quale votarono 4.883.863 persone e il cui risultato fu il 97% dei consensi
(naturalmente al referendum votarono solo i leghisti, giacché
nessuno, meno che mai il governo e la magistratura, lo considerò – o, meglio,
volle considerarlo – una cosa seria). Oggi la Brexit, di nuovo, è il risultato
di un nazionalismo inglese reazionario all’insegna di un’impossibile
restaurazione della passata identità imperiale, in conflitto, tra l’altro, con
gli opposti nazionalismi scozzese e irlandese. Ma sentimenti nazionalisti e di
reciproca avversione – italiani conto tedeschi e viceversa, olandesi e tedeschi
contro greci, polacchi e ungheresi contro l’intera Unione – stanno
sviluppandosi in tutti i paesi europei.
Dunque
con il mio breve intervento qui a Roma, dove mi premeva soprattutto convincere
gli studenti della contraddizione tra i conflitti identitari e il
rispetto delle differenze sul quale si fonda la democrazia, ho espresso
esattamente l’opposto di una qualche indulgenza, che purtroppo traspare
dall’articolo di giornale inviatomi da Perfecto, nei confronti
dell’indipendentismo catalano. Ma proprio perché i conflitti identitari, come
l’esperienza insegna, si auto-alimentano e si radicalizzano se non sono mediati
e rapidamente risolti dalla politica, cioè dal dialogo e dal confronto, mi è
sembrato del tutto controproducente – questa è stata la sostanza del mio
intervento sul processo – che una questione eminentemente politica come quella
catalana sia stata trattata soltanto con il diritto penale e, conseguentemente,
con la carica drammatizzante, criminalizzante e vittimizzante rivestita
dapprima dalla carcerazione preventiva e poi dalle durissime condanne.
Naturalmente non conosco la dottrina e la giurisprudenza penale spagnola. E’
chiaro che per taluni reati, come la malversazione, cioè per l’uso di fondi
pubblici per attività illegittime come il referendum, l’azione penale era
assolutamente necessaria. Ma mi è parso che un’interpretazione
costituzionalmente orientata della vostra norma sulla sedizione, cioè su una
figura penale ottocentesca che è sempre, di fatto, al confine con l’esercizio
del diritto di riunione e di protesta politica, avrebbe forse consentito una
derubricazione del reato o, comunque, l’applicazione di pene più lievi della
media di 10 anni di reclusione.
In
ogni caso la magistratura ha fatto il suo mestiere. Ma il nostro mestiere – di
filosofi e teorici del diritto – non è forse quello di far valere la ragione? E
la ragione – dirò l’essenza – della democrazia, non consiste forse, anzitutto,
nella convivenza pacifica delle differenze, di tutte le differenze di identità
delle persone? E il mestiere della politica non è quello di mediare i conflitti
e di risolverli razionalmente? Non era forse possibile, da parte della politica
e della stampa, stigmatizzare duramente l’indipendentismo ma, insieme, prendere
le distanze dal processo, sdrammatizzare la questione e cercare un compromesso?
Manolo scrive giustamente che i populisti di sinistra esprimono una “sinistra
reazionaria”: sono totalmente d’accordo, i populisti sedicenti di sinistra
favoriscono immancabilmente i populismi di destra. Aggiunge inoltre che
l’indipendentismo catalano ha provocato la crescita di una forza di destra
estrema come Vox. Ne sono convinto anch’io. Ma un contributo ulteriore a questa
crescita non è forse venuto dall’aver ammesso Vox come parte civile nel
processo, così politicizzando il contraddittorio come luogo spettacolare del
conflitto identitario tra opposti nazionalismi? Non sarebbe stata una risposta
più saggia e più opportuna, da parte della cultura giuridica, se anziché
parlare di “colpo di stato” si fosse fatto ricorso a vecchie e collaudate
categorie come l’“inesistenza” e il “reato impossibile”, e si avesse così
squalificato il referendum e la dichiarazione di indipendenza
come atti inesistenti, ben più che invalidi o illeciti, per totale difetto di
competenza e, sul piano penale, come reati impossibili (“La punibilità è
esclusa”, dice l’art. 49, comma 2, del codice penale italiano, “quando, per la
inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile
l’evento dannoso o pericoloso”)? Giacché mi pare innegabile che tutti erano
perfettamente consapevoli, così come lo fummo in Italia a proposito del referendum della
Lega, dell’assoluta inidoneità di simili iniziative a produrre un
qualunque effetto giuridico.
Temo
insomma – come osservatore esterno, ma vi assicuro che tutti i giuristi
italiani con cui ne ho parlato hanno seguito il processo con sorpresa e con
preoccupata perplessità – che il clamore che ha accompagnato il giudizio
penale, l’uso della carcerazione preventiva, la campagna politica condotta
dalle forze della destra contro gli imputati e le altissime pene inflitte ai
condannati abbiano avuto l’effetto di inasprire il conflitto, e perciò di
aggravare, anziché di risolvere il problema. Il problema invece – devo forse
dirlo al principale teorico dell’argomentazione? – si risolve solo con il
dialogo, con l’argomentazione appunto, e con il confronto tra le opposte
ragioni.
A
questo punto, comunque, il processo si è concluso con dure condanne, e non mi
pare che abbia molto senso continuare uno scontro tra sordi in ordine alla sua
valutazione giuridica, oltre tutto condizionato dai nostri diversi ordinamenti
e dalle nostre diverse passate esperienze. Piuttosto, a me pare, ci troviamo di
fronte a un classico conflitto civile e politico che, dopo la condanna,
giustifica un indulto o, ancor meglio, un’amnistia diretta a realizzare la pacificazione
nazionale e, con essa, la convivenza e il pacifico rispetto tra diversi, cioè,
ripeto, le condizioni elementari della democrazia. Che utilità ha, per l’unità
della Spagna, per la sua coesione sociale e per la sua immagine di democrazia
matura, tenere in galera dieci persone nelle quali, a torto o a ragione,
qualche milione di cittadini identifica i suoi rappresentanti, così
accreditando presso una parte della Catalogna, poco importa se minoritaria o
maggioritaria, l’idea che esse siano state vittime di un processo politico?
Penso insomma che sarebbe un segno di forza e di saggezza, da parte del governo
spagnolo, ed anche da parte della cultura giuridica e politica, promuovere un
provvedimento di clemenza. Per quanto ci riguarda, la cosa più utile che
possiamo fare è discutere tra noi di tutti gli aspetti della questione,
mostrarne tutte le valenze politiche e giuridiche sul piano sia della teoria
del diritto che della teoria della democrazia e così portare un contributo di
ragione al dibattito politico. Per questo, se lo ritenete opportuno, potreste
pubblicare questa mia lettera e, magari, aprire sulle nostre lettere un
dibattito.
Con
la profonda stima e amicizia di sempre,
Luigi
No hay comentarios:
Publicar un comentario