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miércoles, 18 de diciembre de 2019

Carta de Luigi Ferrajoli sobre el procés

Se trata de una carta dirigida a Perfecto Andrés Ibáñez y a mí, en contestación a un correo que le había enviado cada uno mostrando la extrañeza y preocupación por la noticia aparecida en Sinpermiso del pasado día 9 de diciembre y firmada por Roger Graells Font.


Carissimi Perfecto e Manolo,
       Sono anch’io enormemente amareggiato per l’impressione di una mia qualche indulgenza per l’indipendentismo catalano, generata dal resoconto giornalistico di un mio intervento in una tavola rotonda svoltasi qui a Roma il 28 novembre, davanti agli studenti nella mia università. E, naturalmente, ciò che più mi addolora è il dissenso, o meglio l’incomprensione intervenuta tra di noi.  Gran parte del mio intervento qui a Roma è stato dedicato a due questioni. La prima è stata la netta negazione dell’esistenza di un diritto all’autodeterminazione dei popoli in un paese democratico nel quale siano garantiti, come in Catalogna, i diritti fondamentali di tutti. Ho sostenuto l’ovvia tesi che il diritto all’autodeterminazione è stato concepito, nelle attuali carte internazionali, al fine di promuovere i processi di decolonizzazione e, comunque, di liberazione da oppressioni straniere. L’indipendentismo della Catalogna, tra le regioni più ricche della Spagna è invece (l’ho sostenuto anche nel mio “Manifiesto por la igualdad”, Trotta, pp. 43-44, appena tradotto da Perfecto), una forma inaccettabile di secessionismo dei ricchi.
        La seconda questione, ancora più di fondo, riguarda una minaccia che, sia pure in forme diverse, sta avvelenando la politica nei nostri paesi, a cominciare dall’Italia: l’estrema pericolosità, per il futuro delle nostre democrazie, dei tanti conflitti identitari promossi con crescente successo da formazioni di estrema destra cementate da rivendicazioni di tipo nazionalista (in Italia diciamo anche “sovranista”) e talora razzista, nonché da una concezione della democrazia informata alla logica schmittiana dell’amico-nemico: America first, prima gli italiani, no alle invasioni dei migranti, no all’Unione Europea e alle sue prescrizioni e, in Spagna, per di più, il secessionismo catalano e il riemergere dei nazionalismi. In Italia – ma qualcosa di simile è accaduto negli Stati Uniti, in Ungheria, in Polonia e rischia di accadere anche in Germania – queste pulsioni e queste politiche identitarie sono alla continua ricerca di nemici: la casta dei politici, l’Europa, i migranti, i devianti, gli stranieri. Stanno tornando, ad opera delle campagne demagogiche che fanno leva sulla paura per i diversi, i nazionalismi e i campanilismi aggressivi ed ottusi, che rischiano di far fallire il progetto europeo ed anche di avvelenare le nostre democrazie. Qualche anno fa il secessionismo in Italia della Lega Nord, che non è stato affatto un fenomeno folcloristico ma una minaccia al nostro assetto costituzionale, dette vita dapprima, il 15 settembre 1996, a una “Dichiarazione di indipendenza della Padania” (entità regionale totalmente inventata) e poi, il 25 maggio 1997, a un referendum, oggi da tutti dimenticato, per l’indipendenza e la sovranità della Padania nel quale votarono 4.883.863 persone e il cui risultato fu il 97% dei consensi (naturalmente al referendum votarono solo i leghisti, giacché nessuno, meno che mai il governo e la magistratura, lo considerò – o, meglio, volle considerarlo – una cosa seria). Oggi la Brexit, di nuovo, è il risultato di un nazionalismo inglese reazionario all’insegna di un’impossibile restaurazione della passata identità imperiale, in conflitto, tra l’altro, con gli opposti nazionalismi scozzese e irlandese. Ma sentimenti nazionalisti e di reciproca avversione – italiani conto tedeschi e viceversa, olandesi e tedeschi contro greci, polacchi e ungheresi contro l’intera Unione – stanno sviluppandosi in tutti i paesi europei.
       Dunque con il mio breve intervento qui a Roma, dove mi premeva soprattutto convincere gli  studenti della contraddizione tra i conflitti identitari e il rispetto delle differenze sul quale si fonda la democrazia, ho espresso esattamente l’opposto di una qualche indulgenza, che purtroppo traspare dall’articolo di giornale inviatomi da Perfecto, nei confronti dell’indipendentismo catalano. Ma proprio perché i conflitti identitari, come l’esperienza insegna, si auto-alimentano e si radicalizzano se non sono mediati e rapidamente risolti dalla politica, cioè dal dialogo e dal confronto, mi è sembrato del tutto controproducente – questa è stata la sostanza del mio intervento sul processo – che una questione eminentemente politica come quella catalana sia stata trattata soltanto con il diritto penale e, conseguentemente, con la carica drammatizzante, criminalizzante e vittimizzante rivestita dapprima dalla carcerazione preventiva e poi dalle durissime condanne. Naturalmente non conosco la dottrina e la giurisprudenza penale spagnola. E’ chiaro che per taluni reati, come la malversazione, cioè per l’uso di fondi pubblici per attività illegittime come il referendum, l’azione penale era assolutamente necessaria. Ma mi è parso che un’interpretazione costituzionalmente orientata della vostra norma sulla sedizione, cioè su una figura penale ottocentesca che è sempre, di fatto, al confine con l’esercizio del diritto di riunione e di protesta politica, avrebbe forse consentito una derubricazione del reato o, comunque, l’applicazione di pene più lievi della media di 10 anni di reclusione.
        In ogni caso la magistratura ha fatto il suo mestiere. Ma il nostro mestiere – di filosofi e teorici del diritto – non è forse quello di far valere la ragione? E la ragione – dirò l’essenza – della democrazia, non consiste forse, anzitutto, nella convivenza pacifica delle differenze, di tutte le differenze di identità delle persone? E il mestiere della politica non è quello di mediare i conflitti e di risolverli razionalmente? Non era forse possibile, da parte della politica e della stampa, stigmatizzare duramente l’indipendentismo ma, insieme, prendere le distanze dal processo, sdrammatizzare la questione e cercare un compromesso? Manolo scrive giustamente che i populisti di sinistra esprimono una “sinistra reazionaria”: sono totalmente d’accordo, i populisti sedicenti di sinistra favoriscono immancabilmente i populismi di destra. Aggiunge inoltre che l’indipendentismo catalano ha provocato la crescita di una forza di destra estrema come Vox. Ne sono convinto anch’io. Ma un contributo ulteriore a questa crescita non è forse venuto dall’aver ammesso Vox come parte civile nel processo, così politicizzando il contraddittorio come luogo spettacolare del conflitto identitario tra opposti nazionalismi? Non sarebbe stata una risposta più saggia e più opportuna, da parte della cultura giuridica, se anziché parlare di “colpo di stato” si fosse fatto ricorso a vecchie e collaudate categorie come l’“inesistenza” e il “reato impossibile”, e si avesse così squalificato il referendum e la dichiarazione di indipendenza come atti inesistenti, ben più che invalidi o illeciti, per totale difetto di competenza e, sul piano penale, come reati impossibili (“La punibilità è esclusa”, dice l’art. 49, comma 2, del codice penale italiano, “quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”)? Giacché mi pare innegabile che tutti erano perfettamente consapevoli, così come lo fummo in Italia a proposito del referendum della Lega, dell’assoluta inidoneità di simili iniziative a produrre  un qualunque effetto giuridico.
       Temo insomma – come osservatore esterno, ma vi assicuro che tutti i giuristi italiani con cui ne ho parlato hanno seguito il processo con sorpresa e con preoccupata perplessità – che il clamore che ha accompagnato il giudizio penale, l’uso della carcerazione preventiva, la campagna politica condotta dalle forze della destra contro gli imputati e le altissime pene inflitte ai condannati abbiano avuto l’effetto di inasprire il conflitto, e perciò di aggravare, anziché di risolvere il problema. Il problema invece – devo forse dirlo al principale teorico dell’argomentazione? – si risolve solo con il dialogo, con l’argomentazione appunto, e con il confronto tra le opposte ragioni.
       A questo punto, comunque, il processo si è concluso con dure condanne, e non mi pare che abbia molto senso continuare uno scontro tra sordi in ordine alla sua valutazione giuridica, oltre tutto condizionato dai nostri diversi ordinamenti e dalle nostre diverse passate esperienze. Piuttosto, a me pare, ci troviamo di fronte a un classico conflitto civile e politico che, dopo la condanna, giustifica un indulto o, ancor meglio, un’amnistia diretta a realizzare la pacificazione nazionale e, con essa, la convivenza e il pacifico rispetto tra diversi, cioè, ripeto, le condizioni elementari della democrazia. Che utilità ha, per l’unità della Spagna, per la sua coesione sociale e per la sua immagine di democrazia matura, tenere in galera dieci persone nelle quali, a torto o a ragione, qualche milione di cittadini identifica i suoi rappresentanti, così accreditando presso una parte della Catalogna, poco importa se minoritaria o maggioritaria, l’idea che esse siano state vittime di un processo politico? Penso insomma che sarebbe un segno di forza e di saggezza, da parte del governo spagnolo, ed anche da parte della cultura giuridica e politica, promuovere un provvedimento di clemenza. Per quanto ci riguarda, la cosa più utile che possiamo fare è discutere tra noi di tutti gli aspetti della questione, mostrarne tutte le valenze politiche e giuridiche sul piano sia della teoria del diritto che della teoria della democrazia e così portare un contributo di ragione al dibattito politico. Per questo, se lo ritenete opportuno, potreste pubblicare questa mia lettera e, magari, aprire sulle nostre lettere un dibattito.
       Con la profonda stima e amicizia di sempre,
                  Luigi



martes, 22 de octubre de 2019

¿Tiene un futuro la filosofía del Derecho?

Es el texto de la ponencia que presenté en el homenaje a Jorge Malem que se celebró en Tossa de Mar los días 17 y 18 de octubre de 2019.


¿TIENE  UN FUTURO  LA  FILOSOFÍA  DEL  DERECHO?

1.

El título de mi ponencia, “¿Tiene un futuro la filosofía del Derecho?”, se inspira en el de un conocido trabajo que un importante penalista, Enrique Gimbernat, publicó en 1970: “¿Tiene un futuro la dogmática penal?” Partía ahí de la situación de crisis que entonces vivía la ciencia del Derecho penal en Alemania como consecuencia de la puesta en cuestión de la noción de culpabilidad que planteaban entonces el desarrollo de las ciencias empíricas (la criminología) y el psicoanálisis; y que hoy, en cierto modo, se ha agudizado con el desarrollo de la neurociencia. La situación vendría a ser la siguiente: si no existe el libre albedrío, entonces no cabe hablar ni de culpabilidad ni de pena y, por lo tanto, tampoco de Derecho penal o de dogmática penal. Gimbernat aceptaba la tesis del determinismo (no había en su opinión libre albedrío), pero, a su juicio, la existencia del Derecho penal no dependía del principio de culpabilidad, de manera que, una vez justificada la necesidad de ese orden normativo, nuestro penalista concluía justificando también la necesidad de una dogmática penal, cuya función fundamental habría de ser la de aumentar la seguridad en la aplicación del Derecho penal.

El anterior esquema puede también servir, salvadas las distancias, para abordar el tema que aquí nos interesa. De manera que, en primer lugar, habría que ver si los cambios, o alguno de los cambios, que están teniendo lugar en los últimos tiempos en el Derecho significan una amenaza para la supervivencia de la filosofía del Derecho; para luego, y en el caso de que la respuesta sea negativa (o sea, si se piensa que sigue habiendo o seguirá habiendo problemas iusfilosóficos), plantearse la cuestión de qué tipo de filosofía del Derecho está justificada, esto es, cuál es la filosofía del Derecho que tiene un futuro, en el sentido de que cumple las condiciones para resolver o, al menos, decir algo que sea relevante en relación con esos problemas.


2.

A propósito de la primera de esas cuestiones, habría que decir que la pervivencia de la filosofía del Derecho parecería, en principio, estar más y mejor asegurada que la de la dogmática penal o cualquier otra disciplina jurídica de carácter particular. Simplemente, porque los problemas iusfilosóficos no dependen de un determinado sector del ordenamiento jurídico de manera que, por ejemplo, la desaparición del Derecho penal (bien sea porque ha sido sustituido “por algo mejor que el Derecho penal” o bien por algo todavía peor: a eso apuntan muchas de las distopías que se han construido en los últimos tiempos) no tendría por qué llevar consigo la de la filosofía del Derecho. Lo que amenazaría nuestra existencia como filósofos del Derecho tendría que ser la desaparición del Derecho en su totalidad, o bien un tipo de cambio en los sistemas jurídicos que no suscitara ya problemas como los que, tradicionalmente, se han considerado problemas iusfilosóficos y que –recuerdo- de manera muy esquemática vendrían a ser: el problema del concepto de Derecho; el del conocimiento –el método- jurídico; y el de la justicia.

En el inmediato pasado, como es bien sabido, el anarquismo o el marxismo defendieron la tesis de que el Derecho y el Estado estaban destinados a extinguirse una vez que se diera el paso a un modelo perfecto, justo, de sociedad: la anarquista o la comunista. Esos son dos ejemplos de ideologías, de concepciones del mundo, que suelen considerarse trasnochadas, pero en los últimos tiempos ha aparecido una nueva, el llamado transhumanismo o posthumanismo, que, sobre la base del impresionante avance de la ciencia y de la tecnología, vuelve a plantear la hipótesis de una sociedad sin Derecho, en el sentido de que el control social no requeriría ya de los instrumentos típicamente jurídicos: basados en la existencia de normas cuyo cumplimento viene asegurado por el uso de la fuerza física. Según ellos, estaríamos en la antesala de lo que sería un cambio específico, o sea, nuestros descendientes (o algunos de ellos) no podrían ya considerarse propiamente como miembros de la especie homo sapiens; esos individuos post-humanos poseerían capacidades físicas, cognitivas y emocionales que implicarían necesariamente un cambio de valores en relación con los que subyacen a nuestras instituciones morales, políticas o jurídicas. Según Juval Noah Harari, la propia noción de Derecho, al igual que la de derechos humanos, no son más que ficciones, construcciones imaginarias  que dependen de otra ficción, la del libre albedrío, y que, es de suponer, estarían destinadas a desaparecer o a ser absorbidas por la biología: “el comportamiento humano está determinado por hormonas, genes y sinapsis, y no por el libre albedrío; las mismas fuerzas que determinan el comportamiento de los chimpancés, los lobos y las hormigas. Nuestros sistemas judiciales y políticos intentan barrer en gran medida estos descubrimientos inconvenientes bajo la alfombra. Pero, con toda franqueza, ¿cuánto tiempo más podremos mantener el muro que separa el departamento de biología de los departamentos de derecho y ciencia política?” (Sapiens, 2014, p. 262).

Pues bien, yo no creo que se pueda descartar del todo la hipótesis del no Derecho, o sea, es posible que las cosas evolucionen de tal manera que el control del comportamiento de todos o de algunos de los homo sapiens (o de los sucesores de los homo sapiens) vaya a dejar de ser jurídico. Y, por cierto, el libre albedrío (el no determinismo) me parece que es condición de existencia no sólo del Derecho penal (en esto, a mi juicio, se equivocaba Gimbernat), sino también del Derecho, de la moral y de cualquier tipo de acción que caiga en el ámbito de lo que solemos entender por razón práctica. Pero parece que, por lo menos en lo que se refiere al inmediato futuro, en nuestras sociedades va a seguir habiendo Derecho; incluso todo apunta a que el grado de juridicidad de la sociedad se está incrementando mucho aunque, al mismo tiempo, cabe pensar que el nuevo Derecho presenta características un tanto distintas en relación con el Derecho, digamos, clásico, el Derecho estatal. Y de aquí (de cómo están evolucionando nuestros Derechos y nuestras sociedades) surgen, por cierto, problemas iusfilosóficos de enorme calado. Para empezar, el del propio concepto de Derecho. ¿Deberíamos seguir pensando en el Derecho como un conjunto de normas jerarquizadas y respaldadas por la coacción? ¿O acaso lo que mejor permite dar cuenta del nuevo Derecho no es ya la pirámide kelseniana, sino la idea de red, de horizontalidad y del poder blando que caracterizaría al llamado soft law? Y si fuera esto último, ¿estaríamos entrando quizás en un proceso de desaparición del Derecho? ¿Cuál está siendo –o debería ser- el sustituto del Derecho?

Las respuestas a esas preguntas son obviamente muy variadas y cada una de ellas, además, apunta, yo diría, a una determinada forma de concebir la filosofía del Derecho. Pondré tres ejemplos, a modo de mera ilustración.

El primero se puede encontrar en la obra de Luigi Ferrajoli, que tanto éxito ha tenido en los últimos tiempos. Para él, como se sabe, el constitucionalismo garantista significa un cambio de paradigma en relación con el positivismo clásico, porque el Derecho (el Derecho positivo) incorpora ahora también el deber ser jurídico. El constitucionalismo contemporáneo ofrece un modelo de Derecho capaz en teoría de hacer frente a los grandes desafíos de nuestras sociedades, si no fuera porque “los poderes económicos y financieros se han reubicado fuera de los confines nacionales, evadiéndose del rol de gobierno de la política y de las funciones de garantía del derecho”. La “verdadera Grund-norm del orden mundial” no se encuentra en “las constituciones nacionales y las cartas internacionales de los derechos”, sino en “la ley del mercado”. Y de ahí que él considere que “repensar la geografía de poderes, tanto públicos como privados, y reivindicar el rol del derecho como ley del más débil en contra de las leyes de los más fuertes, que son las leyes de la economía, son actualmente las tareas principales de la filosofía del derecho del futuro (Doxa 39, p. 262 y 263).

Un segundo ejemplo puede encontrarse en la obra de Francisco Laporta. Como todos sabemos muy bien, él no piensa que sea para nada necesario establecer ningún nuevo paradigma iusfilosófico, sino que, cabría decir, lo que él propugna es una defensa del positivismo jurídico, basado en la asunción de los valores del Estado de Derecho en una visión, digamos, clásica, que pone el énfasis en la noción de imperio de la ley, porque le parece que eso es una condición necesaria para que pueda haber derechos fundamentales. En un trabajo reciente, Laporta se plantea si el orden jurídico actual va a ser o no capaz de afrontar los grandes problemas que surgen como consecuencia de la evolución y distribución de la población humana, los movimientos migratorios, las nuevas tecnologías de la información, el cambio climático o la economía financiera. Su tesis es que, de haber una solución (su actitud es de bastante pesimismo), ella no se encontraría en la apelación a ideas como la de networks o soft law, sino que habría que volver a lo que él considera como “la razón última del derecho”: “una autoridad externa que imponga la solución” a actores que tienen intereses y preferencias incompatibles (p. 32); “las soluciones a nuestros problemas tienen que ser soluciones normativas y, con frecuencia, soluciones claramente jerárquicas y vinculantes (p. 41).

Y el tercer ejemplo es el de un iusfilósofo, digamos, de la nueva generación y que plantea también las cosas de manera muy diferente a como lo hacen Ferrajoli o Laporta. Luis Lloredo considera que la filosofía del Derecho es “una emanación de la cultura iuspositivista” (p. 121), y que está ligada a un “rasgo característico del mundo moderno” como es “la centralidad del derecho” (p. 119). Ahora bien, esa “hegemonía de lo jurídico se está desvaneciendo”, se está “difuminando su poder como instrumento regulador” (p. 128). Pero esa “pérdida de la centralidad del derecho a la que estamos asistiendo no es tanto la penetración de la moral, como se nos dice desde las teorías neoconstitucionalistas, sino un reverdecimiento de la política, una politización de lo jurídico” (p. 130). De manera que lo que nos viene a decir Lloredo es que la filosofía del Derecho tendría que ser reemplazada por una filosofía política, como lógica consecuencia de la pérdida de centralidad del Derecho y de la subordinación del Derecho a la política. Y para ello pretende inspirarse nada menos que en Pasukanis y en la propuesta de este último de reemplazar al Derecho por una “política audaz” (p. 130), precisando que esa “primacía de la política no debería verse como un atentado a la cultura democrática, sino como una radicalización de la misma, como una forma de hacer del derecho un ejercicio más sometido a la deliberación pública de lo que lo es ahora, más cercano a las problemáticas sociales y menos propenso a encerrarse en su aislamiento tradicional” (p. 131-2).


3.

Pues bien, yo no creo que los cambios que están ocurriendo en la sociedad y en el Derecho supongan un peligro para la filosofía del Derecho. Lo que los mismos plantean, si acaso, es la necesidad de un reenfoque de la reflexión iusfilosófica, pero parece indudable que, al menos por un tiempo, vamos a seguir teniendo materia iusfilosófica, o sea, seguirá existiendo el problema de qué es el Derecho, cómo podemos conocerlo en sus diversas manifestaciones y qué métodos hemos de utilizar para operar en las diversas instancias jurídicas, y el de cómo debería ser, qué cabe entender por Derecho justo. Sin embargo, al mismo tiempo, me parece que debemos reconocer también la existencia de una serie de síntomas que apuntan hacia el diagnóstico de que la filosofía del Derecho no es una disciplina que goce en los últimos tiempos de muy buena salud.

Quizás esos síntomas resulten menos visibles cuando el panorama se contempla desde España o, en general, desde el mundo latino. Se sigue escribiendo mucho sobre la materia, hay un número creciente de revistas, muchísimos profesores, en Latinoamérica casi cabría hablar de una moda iusfilosófica…Pero las cosas no parecen ir por este camino en el panorama internacional. Pongo tres ejemplos de la pérdida de interés académico de la disciplina, que me parecen significativos.

Hace ya un tiempo, unos 15 años, vino a nuestro seminario de los jueves de filosofía del Derecho, en Alicante,  Aulis Aarnio, a hablar de Alf Ross. Y una de las cosas que dijo, y que nos dejó asombrados, fue que en los países nórdicos prácticamente nadie (ningún jurista) sabía ya quien era Alf Ross. Y esa cuasi-desaparición de los estudios de filosofía del Derecho en el Norte de Europa parece confirmada por el testimonio de otros profesores que siguen teniendo algún interés por la disciplina que, sin embargo, solo cultivan como un aspecto bastante secundario de su trabajo intelectual.

En una entrevista aparecida en el número de Doxa de 2001 (el 24), Alexy hablaba de una “desprofesionalización” de la filosofía del Derecho en su país. “Todas las Facultades -decía- ofrecen cursos de filosofía y/o teoría del Derecho”, pero “la calidad ciertamente es muy desigual”. Una de las causas de ello es que “En Alemania no hay prácticamente ninguna cátedra dedicada por completo a la filosofía del Derecho o a la teoría del Derecho” (p. 680-1). Y su juicio sobre la desprofesionalización de la materia (algo que, yo creo, es fácil de percibir en los últimos congresos de la IVR) venía a ser éste: “Si uno se da cuenta de que para una parte de los jóvenes el peligro de la desprofesionalización no reside únicamente en lo que vaya a ser el ejercicio de la profesión, sino que sobre la base de una desprofesionalización ya existente de los maestros no han tenido en un principio una formación profesionalizada, entonces resulta fácil explicar algunas de las carencias de la situación actual de la filosofía del Derecho en Alemania” (p. 681-2).

Por lo que se refiere al mundo anglosajón, la situación parece todavía más preocupante. También en una entrevista que se le hizo a Schauer en Doxa en 2014 (nº 37), cuando se le preguntó sobre cómo estaban evolucionando las universidades estadounidense en materia iusfilosófica, contestó lo siguiente: “Antes, cuando Fuller estaba en su mejor momento, desde finales de los años treinta hasta mediados de los sesenta, la Jurisprudence era algo que existía en la conciencia de muchos o al menos de la mayoría de los estudiantes estadounidenses. Los estudiosos de la teoría del derecho en áreas específicas como contratos, responsabilidad civil, derecho constitucional, prueba y derecho penal, por ejemplo, sabían sobre Kelsen, sobre Hart, conocían acerca de Roscoe Pound, etc. La Jurisprudence era propiamente  estudiada para tratar la mayoría de temas del derecho, e informar sobre ellos, en lugar de ser dejada de lado. Esto ha cambiado en décadas recientes, hemos sido testigos en los Estados Unidos y en el Reino Unido, con excepción de algunas universidades y de pocos lugares, del aislamiento creciente de la Jurisprudence en las principales corrientes teóricas y académicas. Este es un problema real -agregaba-, que yo, entre otros, trato de mitigar” (pp. 391-2).

Se podría pensar seguramente que no hay nada de malo en convertirse en una especie de reserva mundial de filosofía –o de filósofos- del Derecho. Pero no me parece tampoco, ni mucho menos, que esto último esté asegurado. Hay una serie de indicios que no son difíciles de percibir y que significan, en mi opinión, otras tantas amenazas a lo que podríamos llamar el futuro de la filosofía dl Derecho en los países latinos y, más en especial, en España.

Uno de ellos es el colonialismo o dependencia cultural que padecemos (o, mejor, que asumimos con entusiasmo), pues parece obvio que, si desciende el nivel de producción de la metrópoli, esa bajada de nivel tendrá que notarse también en las colonias. Y, en todo caso, la dependencia excesiva del exterior (sería absurdo pensar en una filosofía del Derecho cerrada en sí misma, provinciana), produce muchos efectos negativos, mucha desorientación. Pongo un ejemplo de esto último. Cuando empecé a preparar este trabajo, pedí a alguna gente próxima si podían indicarme algunos trabajos de interés sobre la materia. En seguida me sugirieron la lectura de uno de Martha Nussbaum titulado “El uso y abuso de la filosofía en la enseñanza del Derecho”. Merece la pena leerlo y Nussbaum es, sin duda, una filósofa competente y cuya fama, yo diría, está ampliamente justificada. Pero lo que resulta verdaderamente asombroso es que ella parezca ignorar por completo que existe, desde hace por lo menos dos siglos, una tradición de pensamiento, una práctica teórica, que se llama por algo “Filosofía del Derecho”. Y que, por lo tanto, su propuesta de que se debe enseñar filosofía en las escuelas de Derecho (porque en el Derecho existen conceptos de interés filosófico) o que debería pensarse en construir una filosofía aplicada al Derecho siguiendo la pauta de la filosofía aplicada a la medicina, la ética médica, resulta, por decir lo menos, una excentricidad.

Otra señal de preocupación proviene, yo creo, de la enorme dispersión temática que se ha producido en los últimos tiempos. Por un lado, eso puede parecer una muestra de vitalidad pero, al mismo tiempo, supone también una gran debilidad. En la medida en que resulte imposible reconstruir algo así como un núcleo temático de la disciplina, ello lleva consigo, yo creo, un peligro claro de debilitamiento, cuando no de desaparición de nuestra materia, de los planes de estudio de las Facultades de Derecho (que es el único lugar donde cabe pensar que se vaya a estudiar y a desarrollar la filosofía del Derecho). Desde luego, hay motivos sobrados para criticar todo lo que entre nosotros ha supuesto el llamado “Plan Bolonia” (todas sus deletéreas consecuencias, empezando por la malhadada ANECA) y también para quejarse del pragmatismo ramplón dominante en la cultura jurídica en la universidad y fuera de la universidad que, sin duda, conspiran contra la filosofía del Derecho. Pero de la pérdida de peso de las asignaturas de filosofía del Derecho en España (aunque haya muchas diferencias de universidad a universidad) me temo que tenemos también la culpa, en una buena parte, los propios iusfilósofos. Me parece que hemos descuidado ampliamente nuestro deber (ligado a nuestro interés como gremio) de contribuir a que los juristas (nuestros colegas de Facultad; pero también nuestros estudiantes y los juristas prácticos en general) sean capaces de comprender la importancia que para ellos (para desempañar adecuadamente su trabajo) tiene poseer una formación en filosofía del Derecho. Un deber, por cierto, que Jorge Malem se ha tomado muy en serio y en cuyo cumplimiento ha tenido un notable éxito. Personalmente me parece que hay algunas razones de índole deontológico como para no colaborar con la ANECA (derivada de la obligación general de no colaborar al mal en el mundo), pero quizás también aquí quepa esgrimir alguna causa de justificación, como el estado de necesidad o el mal menor (la evitación de males mayores).

Y un último síntoma preocupante sobre la situación de la filosofía del Derecho en España deriva de la manera (o de las maneras) como la disciplina es cultivada (y entendida). Dejando (relativamente) a un lado la dispersión a la que antes me refería, me parece que sigue teniendo sentido pensar que las direcciones dominantes (con todos los matices que se les quiera añadir) podrían –suelen- clasificarse en tres rubros principales que agruparían respectivamente, a  los iusnaturalistas, los positivistas-analíticos, y los “críticos”. Recuerdo ahora (dicho esto entre paréntesis) que hace tiempo, en el número 15-16 de Doxa (1994), Elías Díaz presentaba una clasificación “desenfadada” de la filosofía del Derecho en España, en la que una de las tendencias (en su elenco había hasta 7) aparecía por él calificada como “Doxa-Tossa”; en su opinión, representaba el mercado ( y su análisis), como línea ideológico-política aparecía la de liberales (plurales) y su sede social radicaría en Tossa de Mar: Apartamentos “Prima facie” (muy bien amueblados). Pues bien, yo creo que ninguna de esas tres concepciones resulta muy prometedora si se piensa en el futuro de la filosofía del Derecho. Para decirlo de una manera tajante y prescindiendo por tanto de todos los matices con los que habría que contar para hacer justicia: el iusnaturalismo porque, aunque no podamos prescindir de muchas de las ideas que provienen de esa tradición, es una concepción que obedece al pasado, a una época que no es la nuestra: el Derecho, simplemente, no tiene nada de natural, es un artificio, un producto de la historia; los autores “críticos” porque, aunque no les falte del todo la razón en algunas de sus propuestas, sin embargo, lo que nos ofrecen (ofrecen a los juristas en general) no es propiamente una teoría que pueda guiar las prácticas jurídicas, sino, todo lo más, algunas ideas para tener en cuenta; y el positivismo analítico, por su tendencia, hablo siempre en general, a desentenderse de los problemas reales (relevantes) de la práctica jurídica bajo el pretexto de que lo único que importa en una teoría (o, al menos, el elemento fundamental de la misma) es el rigor metodológico, que algunos piensan debe ser perseguido aunque conduzca a un verdadero rigor mortis.

Jorge Malem se ubica, supongo que él está de acuerdo con ello, en el grupo de los positivistas analíticos, pero hay que reconocer que él es uno de los representantes de esa dirección que se ha ocupado de estudiar problemas bien relevantes: la desobediencia civil, la corrupción, la ética judicial…Ahora bien, aquí surge otra debilidad de la filosofía del Derecho que tiene que ver con la falta de adecuación entre la teoría y la práctica. Quiero decir con ello que de poco vale, por ejemplo, ser un especialista en desobediencia civil si eso no le permite a uno darse cuenta de que Torra no encabeza precisamente un movimiento de desobediencia civil.  De la misma manera que tampoco se ve mucho sentido en defender el universalismo moral si se piensa que eso es compatible con la adhesión al inevitable particularismo que supone cualquier nacionalismo (no digamos cuando se trata de un nacionalismo de los ricos). O en ser un adalid de la democracia deliberativa, pero incapaz de reconocer en la práctica los rasgos que caracterizan a una vulgar y corriente democracia. O, en fin, en pensar que una filosofía como la de Carlos Nino puede dar alguna cobertura a la defensa de un derecho de autodeterminación en el contexto de un Estado de Derecho y en la que existe un pleno goce de todos los derechos fundamentales de los individuos.


4.

Creo que algunos de los que aquí están saben cuál es el tipo de filosofía del Derecho que, en mi opinión, tiene sentido y tiene un futuro, aunque este siempre sea, naturalmente, problemático, incierto. De algunas de las cosas que antes he dicho se desprende también (quizás a contrario sensu) cuáles serían las características (algunas de ellas) de esa filosofía del Derecho, pero no es momento de exponerlas aquí.  Lo dejo para un futuro, quizás no muy lejano. Y termino mi ponencia con un acto de reconocimiento a nuestro homenajeado, Jorge Malem. Uno puede tener con él, como es mi caso, algunas diferencias (de política general y de política universitaria y, quizás por ello, también iusfilosóficas), pero siempre lo he considerado (desde que nos conocimos, hace más de 40 años) un gran amigo (como le gusta decir a nuestro común maestro, Ernesto Garzón: de los del pulmón) con el que, además, la filosofía del Derecho española (y yo como filósofo del Derecho) tiene contraída una gran deuda de gratitud: ¡muchas gracias, pues, Jorge, y mucha suerte!    

lunes, 28 de septiembre de 2015

La democracia a través de los Derechos

El texto es un comentario al último libro de Ferrajoli y ha aparecido en el nº 82 de "Jueces para la democracia":

LA DEMOCRACIA A TRAVÉS DE LOS DERECHOS
                                                                                       
Luigi Ferrajoli es, en mi opinión, uno de los grandes juristas (y teóricos del Derecho) de las últimas décadas y probablemente (y merecidamente) el más influyente en los países latinos: de Europa y de América. Acaba de publicar un libro, La democracia a través de los derechos (traducción de Perfecto Andrés Ibáñez, Ed. Trotta, Madrid, 2014), con un subtítulo que sintetiza a la perfección su contenido y –creo yo- su entera concepción del Derecho: El constitucionalismo garantista como modelo teórico y como proyecto político.
     Por “constitucionalismo garantista” Luigi Ferrajoli entiende una forma de concebir el Derecho –desarrollada por él en muchos escritos de las últimas décadas y que culmina en su monumental Principia iuris- que, situándose dentro de la órbita del positivismo jurídico, vendría a constituir, sin embargo, un “nuevo paradigma” en relación con el positivismo jurídico clásico que, para Ferrajoli, estaría representado, de manera eminente, por las figuras de Hans Kelsen y de Norberto Bobbio. Con ellos comparte, como digo, la idea positivista de que el Derecho es un conjunto de normas separado, desde un punto de vista metodológico, de la moral. Pero se aparta de los dos anteriores autores porque estos no habrían tenido en cuenta el fenómeno de la constitucionalización de nuestros Derechos, ocurrido después de la segunda guerra mundial, y que para él significa, esencialmente, la existencia de constituciones rígidas, lo que  tiene  consecuencias de gran calado. Así, el constitucionalismo supone para Ferrajoli la subordinación de la ley a la constitución lo que, a su vez, implica la existencia de dos niveles de normatividad y de validez jurídica: la validez simplemente formal o vigencia (conformidad de las normas con criterios formales y procedimentales), y la validez plena (conformidad, además, con los criterios sustantivos establecidos en la constitución, en los principios y en los derechos fundamentales). Un cambio que lleva, en su opinión, a profundas modificaciones no sólo en relación con el concepto y la estructura del Derecho, sino también en cuanto a la manera de concebir la jurisdicción y la ciencia del Derecho. Ferrajoli es, por ello, crítico con los autores que, hoy en día, siguen defendiendo el modelo iuspositivista del pasado (del Estado legislativo de Derecho) y no ven en las constituciones rígidas un cambio cualitativo, sino simplemente una continuidad en relación con la legislación ordinaria. Pero también con autores propiamente constitucionalistas que, al igual que él, consideran que la constitucionalización de nuestros Derechos requiere un nuevo paradigma teórico pero que no podría ser ya de tipo positivista; según Ferrajoli, esos autores (Dworkin, Alexy, Nino o Zagrebelski, entre otros) conciben la constitución fundamentalmente como un conjunto de principios morales, lo que les lleva a debilitar el papel de los derechos fundamentales que, en lugar de ser aplicados (como ocurre con las reglas), tendrían que ser ponderados (la ponderación sería el tipo de razonamiento peculiar de los principios). Ferrajoli presenta por ello su constitucionalismo garantista como una vía media entre el paleo-positivismo y el neo-iusnaturalismo, como la única teoría capaz de satisfacer las exigencias del constitucionalismo contemporáneo.
    Ese constitucionalismo garantista constituye, para Ferrajoli, un modelo teórico y normativo, nunca realizado plenamente, y que puede sintetizarse en cuatro postulados: el principio de legalidad, o sea, el sometimiento de todos los poderes a normas jurídicas lo que implica también el sometimiento de la ley a la constitución; el principio de plenitud deóntica, que supone que los principios constitucionales y los derechos por ellos establecidos requieren de un desarrollo legislativo para que no se produzcan lagunas (la infracción del anterior principio daría lugar a contradicciones); el principio de jurisdiccionalidad, según el cual deben existir, para el caso de vulneración de las anteriores normas, órganos jurisdiccionales sometidos a la ley y sólo a la ley; y el principio de accionabilidad que exige que la jurisdicción pueda ser activada por los titulares de los derechos e intereses lesionados y, con carácter complementario y subsidiario, por un órgano público.
    Ahora bien, esos cuatro principios (que, como se ha dicho, no han tenido una consagración plena en ningún sistema jurídico) están hoy seriamente amenazados como consecuencia de la progresiva pérdida de poder de lo político en beneficio del mercado, y del consiguiente proceso de deconstitucionalización de nuestras democracias. El proyecto político de Ferrajoli consiste entonces en señalar las medidas que habría que tomar para revertir esa tendencia y hacer que prevalezcan esos principios, y se sintetiza en la idea de una doble ampliación del paradigma constitucional: en sentido extensional, lo que supone llevar el paradigma a todos los poderes (con la constitucionalización tanto del Derecho internacional como del Derecho privado y comercial); y en sentido intensional, reforzando la garantía de todos los derechos. Se trata de un proyecto político  que supone cambios verdaderamente radicales y, en mi opinión, completamente justificados. La exposición de Ferrajoli al respecto es clara y profunda, sumamente informada y, con frecuencia, brillante. De particular interés me ha resultado su llamada de atención para ver los poderes económicos privados no como libertades sino, precisamente, como poderes, lo que supone capacidad para afectar los intereses y la conducta de los sometidos a ese poder; la necesidad de superar el esquema clásico de la separación de poderes, de manera de incluir también la separación entre los poderes públicos y no públicos (los poderes económicos de naturaleza privada) y entre los poderes públicos y los poderes sociales; o su defensa de la renta básica como garantía esencial de los derechos sociales.
      En relación con los fines, con el proyecto político, yo no tengo ninguna discrepancia con Ferrajoli. Pero sí me parecen cuestionables algunos elementos del modelo teórico, de la construcción conceptual que ofrece para alcanzar esos objetivos últimos. Por un lado, yo no creo que Ferrajoli caracterice bien la teoría constitucionalista que rivaliza con la suya; diría más bien que, en ciertos aspectos, lo que ofrece es una caricatura y, por ello, las críticas que le dirige están, en ocasiones, desenfocadas. Por otro lado, su modelo teórico resulta, en mi opinión, excesivamente pobre para dar cuenta de la complejidad de nuestros Derechos, al estar lastrado el modelo por dos importantes déficits: el positivismo jurídico, que reduce el Derecho a un fenómeno de autoridad; y el no objetivismo en materia moral, que deja su modelo teórico, por así decirlo, en el aire, al no poder ofrecer una fundamentación de los derechos fundamentales, que constituyen el objetivo último de toda su construcción: “los valores morales y políticos últimos no se demuestran(…)simplemente se eligen, se postulan y se defienden” (p. 104).
     Sobre todo esto he discutido con Ferrajoli en diversas ocasiones, y no me parece que sea este el lugar para proseguir con esa disputa doctrinal (1). Pero me gustaría señalar, para terminar, dos aspectos de su construcción teórica que, de alguna manera, le acercan a la concepción que él rechaza (la otra versión del constitucionalismo como teoría a la que, yo creo, sería mejor denominar “postpositivismo”). El primero se refiere al doble plano de análisis que él introduce, al que antes hacía referencia. Es lo que hace posible hablar de “Derecho ilegítimo” (Derecho válido según criterios formales, pero contrario a la Constitución)  y lo que le lleva a Ferrajoli a defender una jurisdicción comprometida con los valores constitucionales y a configurar la ciencia del Derecho en términos críticos y normativos: consecuencias, todas ellas, que a mí me parecen perfectamente aceptables. Pero a esa división de planos habría que añadir, en mi opinión, otra, aún más fundamental: la que permite distinguir en el Derecho no sólo una dimensión autoritativa, sino también otra de carácter valorativo; o sea, el Derecho (en cuanto fenómeno social e histórico, como obra humana y no fenómeno natural; no hay aquí ninguna apelación a un Derecho natural) no es sólo un sistema de normas, sino –fundamentalmente- una empresa dirigida al logro de ciertos fines y valores, dentro de los límites marcados autoritativamente. La diferencia entonces radica en que los dos niveles jurídicos de Ferrajoli se sitúan dentro de la dimensión autoritativa del Derecho, porque él piensa que el discurso moral (valorativo) es siempre externo al Derecho: “la moral y la justicia(…)son siempre puntos de vista externos al derecho: los puntos de vista morales y políticos, no objetivos sino subjetivos, de cada uno de nosotros, ya sea de adhesión o de rechazo, total o parcial, de los principios y valores constitucionalmente establecidos”(p. 101). De manera que lo que Ferrajoli rechaza, por ejemplo, es que el discurso jurídico justificativo (por ejemplo, la motivación de una sentencia) contenga también un fragmento de razonamiento moral. Una tesis, esta última, en mi opinión insostenible desde un punto d evista teórico pero que, además, contribuye a justificar una de las mayores deficiencias en la formación profesional de nuestros jueces: su ignorancia (con las excepciones de rigor) de la filosofía moral contemporánea.
     Y el segundo aspecto atañe a cierta innovación que aparece en su último libro, cuando Ferrajoli señala que hay una dimensión nueva que añadir a la de los derechos fundamentales: la de los bienes fundamentales (pp. 211 y ss.). Bueno, lo que el postpositivismo (o cierto tipo de postpositivismo) defiende al respecto (y que Ferrajoli critica) es que la noción de derechos fundamentales no puede entenderse adecuadamente si uno se mueve exclusivamente en el nivel normativo; se hace necesario también aquí incorporar el plano de los valores. Por supuesto, es posible dar una definición puramente formal del concepto de derecho fundamental (como hace Ferrajoli), pero la misma resulta insuficiente, porque los valores, la existencia de conductas o de estados de cosas particularmente valiosos, es lo que justifica que se articule una red normativa para su protección; si se prescinde del elemento de valor, entonces se deja fuera un elemento esencial de ese concepto. O sea que, de nuevo, no hay ninguna objeción que poner a la noción de bienes fundamentales, pero sí a la reducción del Derecho a su dimensión autoritativa. Y, también aquí, el plano valorativo es (en parte) interno a nuestras prácticas jurídicas, como se ve en el papel determinante que los valores pueden tener a la hora de resolver un problema de interpretación en relación con un derecho fundamental (o de ponderación, en caso de conflicto entre derechos).
     Como se habrá visto, quien escribe este comentario no es exactamente un ferrajoliano en materia de teoría del Derecho. Sino más bien alguien que piensa que el paso dado por Ferrajoli al superar el positivismo clásico de Kelsen o de Bobbio debe proseguirse más allá para dejar también atrás al positivismo jurídico. Lo que no implica, naturalmente, pensar que el positivismo jurídico carece de cualquier valor y que, por lo tanto, no hay nada en lo construido por los autores pertenecientes a esa concepción del Derecho que merezca conservarse. Por el contrario, sigue habiendo, en mi opinión, muchos elementos útiles en lo construido por esa tradición de pensamiento, incluyendo en la misma, de manera muy destacada, las aportaciones de Ferrajoli. Sinceramente, no creo que el jurista (positivista, postpositivista o lo que quiera que sea) tenga hoy a su disposición muchos libros en los que pueda aprender tanto como en el que acaba de publicar Luigi Ferrajoli: La democracia a través de los derechos.


(1) Al lector interesado le remito al nº 34 de la revista Doxa, que se publicó también como libro en Marcial Pons con el título de Un debate sobre el constitucionalismo (Madrid, 2012). Ahí se recoge la presentación de Ferrajoli de dos tipos de constitucionalismo a los que llama respectivamente “garantista” y “principialista” y los comentarios al respecto de diversos filósofos del Derecho; el mío se titula, “Dos versiones del constitucionalismo”.

lunes, 7 de septiembre de 2015

ENTREVISTA CONJUR

Por André Rufino do Vale

Os filósofos do Direito do “mundo latino” precisam estar mais em contato uns com os outros. O distanciamento tem feito com que a produção desse grupo de pensadores seja “dispersa”. O resultado, no entendimento do professor Manuel Atienza Rodríguez, da Universidad de Alicante, na Espanha, é uma tendência de que os juristas latinos passem a “importar” conceitos, problemas e construções do mundo anglo-saxão.

“Não nos damos conta, mas o que estamos importando das universidades do mundo anglo-saxão são problemas, métodos de análise e objetivos que podem não ser exatamente os que seriam de maior interesse para nós”, diz, em entrevista à revista Consultor Jurídico. A solução, para ele, é criar “uma filosofia do Direito para o mundo latino, tanto na América quanto na Europa”.

É uma espécie de programa, ou projeto, para reunir pensadores responsáveis por desenvolver um Direito latino e colocá-los em contato. “Seria algo como uma filosofia do Direito 'regional', que ocuparia um lugar intermediário entre o que agora se faz em cada um de nossos países e a filosofia do Direito no âmbito mundial — que, na realidade, é a filosofia que se elabora em algumas universidades do mundo anglo-saxão e se exporta a outras partes do mundo”, explica o professor.

Manuel Atienza é catedrático de Filosofia do Direito da Universidade de Alicante, na Espanha, e diretor da pós-graduação em Argumentação Jurídica do curso de Direito da instituição. Foi diretor da revista Doxa-Cuadernos de Filosofía del Derecho e já foi membro da Academia Europeia de Teoria do Direito e professor visitante da Universidade Autônoma de Madri.

Atienza falou à ConJur com exclusividade, em visita ao Brasil para palestras e cursos. Em sua passagem por Brasília, o professor espanhol proferiu o curso de argumentação jurídica na Universidade de Brasília (UnB), e palestra no Instituto Brasiliense de Direito Público (IDP).

Para esta entrevista, ele conversou com um de seus alunos, o procurador federal André Rufino do Vale, também colunista da ConJur. Rufino hoje está na Consultoria-Geral da União e é professor do Instituto Brasiliense de Direito Público (IDP).

Leia a entrevista:

ConJur — Depois de um mês de cursos e palestras em diversas cidades brasileiras (Florianópolis, Rio de Janeiro, Recife, Belém, Brasília), qual a a impressão do senhor sobre o atual desenvolvimento da teoria do direito no Brasil?
Manuel Atienza Rodríguez — Minha impressão é que há muito interesse na matéria, e não só por parte dos “filósofos profissionais” do Direito. Surpreendeu-me, por exemplo, e de modo muito positivo, ver que os constitucionalistas brasileiros estão muito antenados em relação aos temas jusfilosóficos mais candentes dos últimos tempos: o debate sobre o positivismo, os princípios, a ponderação... No entanto, ao mesmo tempo, parece-me que existe também uma considerável dispersão e que falta poder articular toda uma série de pesquisas que estão sendo desenvolvidas um tanto isoladamente.

ConJur — Como assim?
Manuel Atienza — Posso estar equivocado, mas creio que esses pesquisadores (que compartilham as mesmas preocupações) muitas vezes não se conhecem entre si, ou se conhecem muito pouco. Os trabalhos que escrevem parecem estar, com frequência, orientados mais a um auditório de alemães ou de norte-americanos do que a juristas brasileiros. Há uma tendência a assumir posições excessivamente abstratas que não me parecem adequadas adequadas para dar resposta aos problemas que realmente importam.

ConJur — O senhor pode dar um exemplo?
Manuel Atienza — Parece muito estranho que se possa pensar que Heidegger nos dará a chave para a compreensão ou a crítica das súmulas vinculantes. Enfim, correndo o risco de parecer provocador, eu diria que a filosofia do Direito brasileira necessita de menos hermenêutica e mais filosofia analítica. E que conste que, em muitos aspectos, eu sou muito crítico em relação ao que, em países como Argentina e Espanha, fazem os filósofos analíticos.

ConJur — O senhor tem defendido "uma filosofia do Direito para o mundo latino", a qual teria a função primordial de resgatar os principais nomes da filosofia do direito dos países da Europa ibérica e da América Latina. Pode explicar esse projeto?
Manuel Atienza — Efetivamente escrevi vários trabalhos tratando de promover uma filosofia do Direito para o mundo latino, tanto da América quanto da Europa. Creio que essa foi minha vocação desde que comecei a me ocupar da filosofia do Direito, já há mais de 40 anos. Seria algo como uma filosofia do Direito “regional”, que ocuparia um lugar intermediário entre o que agora se faz em cada um de nossos países e a filosofia do Direito no âmbito mundial – que, na realidade, é a filosofia que se elabora em algumas universidades do mundo anglo-saxão e se exporta a outras partes do mundo.

ConJur — O projeto seria, então, criar um pensamento latino, como há hoje um pensamento anglo-saxão.
Manuel Atienza — Muitas vezes não nos damos conta, mas o que estamos importando das universidades do mundo anglo-saxão são problemas, métodos de análise e objetivos que podem não ser exatamente os que seriam de maior interesse para nós. Creio que se lográssemos articular uma comunidade jusfilosófica no conjunto de países do mundo latino (aproveitando a proximidade existente desde o ponto de vista cultural, linguístico etc.), poderíamos contribuir também para uma filosofia do Direito mais equilibrada no plano global.

ConJur — Esse projeto já está em prática?
Manuel Atienza — Convocamos um primeiro congresso em Alicante, na Espanha, para os dias 26 a 28 de maio de 2016, com o objetivo de dar um primeiro passo nessa direção. Mas para que fique claro: não se trata de ir contra os anglo-saxões, mas de potencializar o que se faz (e o que se poderia fazer) em nossos países. Tem a ver com algo a que antes me referia, e que não afeta unicamente aos jusfilósofos, aos juristas brasileiros: com frequência, se tem a impressão de que em nossos países, no mundo latino, renunciamos a ter um pensamento próprio (na filosofia do Direito e em muitos outros campos) e de que a única coisa de que somos capazes é de comentar ou difundir o que outros pensam. E eu creio que podemos, e devemos, aspirar a mais.

ConJur — Tem sido tema frequente das palestras do senhor o chamado neoconstitucionalismo. O assunto é bastante polêmico, especialmente na América Latina. Como o senhor se posiciona em relação a ele?
Manuel Atienza — A discussão em torno do chamado “neoconstitucionalismo” é um acúmulo de confusões. Para começar, o próprio termo é confuso (equívoco e equivocado): não tem sentido chamar assim uma teoria do Direito que nunca foi precedida por uma teoria “constitucionalista”. É também equivocado sustentar que as teses que comumente se apreendem dos autores “neoconstitucionalistas” estão respaldadas pelas obras de autores como Dworkin, Alexy, Nino ou Ferrajoli, que, certamente, nunca se autodenominaram “neoconstitucionalistas”. Enfim, se por “neoconstitucionalismo” se compreende uma teoria que nega que o raciocínio jurídico seja distinto do raciocínio moral, que identifica o Direito com os princípios e se desentende das regras, que promove a ponderação frente à subsunção e que apoia o ativismo judicial, então essa é, sem mais, uma concepção equivocada, insustentável, do Direito. Pode-se entender, não justificar, como uma reação frente ao formalismo jurídico, que provavelmente continue sendo o traço mais característico da cultura jurídica nos países latinos.

ConJur — O senhor, então, se opõe ao neoconstitucionalismo?
Manuel Atienza — A reação frente a esses excessos formalistas não pode incorrer no excesso contrário. Sou partidário de uma concepção pós-positivista (constitucionalista), próxima a de autores como Dworkin, Alexy, Nino ou MacCormick, que se opõem tanto ao positivismo jurídico (a qualquer tipo de positivismo) quanto ao "neoconstitucionalismo”. A ideia central é que o Direito não pode ser concebido simplesmente como um sistema de normas, mas, fundamentalmente, como uma atividade, uma prática social que trata, dentro dos limites estabelecidos pelo sistema, de satisfazer a uma série de fins e valores que caracterizam essa prática. Por isso dou tanta importância à argumentação: por entender que é o instrumento adequado para obter esses objetivos, que são, afinal, garantir os direitos fundamentais das pessoas.

ConJur — O senhor tem sido considerado um dos principais pensadores atuais no contexto do denominado constitucionalismo teórico, ao lado de outros grandes nomes, como o do jurista italiano Luigi Ferrajoli. Quais são seus principais pontos de divergência em relação ao constitucionalismo de Ferrajoli?
Manuel Atienza — Sinto uma grande admiração, pessoal e profissional, por Ferrajoli e por isso lamento não estar de acordo com ele em alguns pontos teóricos que me parecem importantes – embora minha concordância com ele no plano político seja completa. Essas diferenças teóricas são basicamente duas. A primeira se refere à sua concepção positivista do Direito, da qual não compartilho porque me parece excessivamente pobre. Resumo minha posição em três aspectos: não creio que se possa separar o Direito da Moral da maneira estanque que Ferrajoli propõe (o que não significa que eu pense que o Direito é uma parte da Moral, nem nada desse estilo); tampouco compartilho sua tendência a ver o Direito quase exclusivamente como um conjunto de regras, e nem com a sua desqualificação radical da ponderação.

ConJur — E qual o segundo ponto de discordância?
Manuel Atienza — A segunda é que me oponho ao não-cognoscitivismo, ou ceticismo ético (no plano da teoria ética) que ele propugna. Pelo contrário, eu defendo o objetivismo moral (se assim se quer, mínimo; mas objetivismo), porque me parece que isso é um pressuposto necessário para poder dar conta do Direito do Estado constitucional e para poder atuar com sentido no interior das práticas jurídicas. Em particular, da judicial.

Entrevista